Furori d’estate

(di Stelio W. Venceslai)

 I languori dell’epidemia stanno sovrastando l’Occidente europeo. Bagliori di fiamma ardono  attorno a noi: in Libano e in Bielorussia.

        In Libano, un Paese di appena 3 milioni di abitanti, dopo quindici anni di guerre civili (1975-1990), dopo un’invasione israeliana, la guerra israelo-libanese e un mezzo governo cristiano nel sud, alleato di Gerusalemme, imbarbarito e impoverito da un milione e mezzo di profughi, è stato di volta in volta occupato da forze militari arabe e dai Caschi blu delle Nazioni Unite, ha covato gli interessi di Damasco (la grande Siria), ha allevato  i miliziani dell’OLP e gli Hetzbollah filo.iraniani.

        Dopo la tragedia del porto di Beirut, la furia della folla è esplosa. Ce l’hanno con il governo, che sapeva del pericolo da anni e non ha fatto nulla, ce l’hanno contro la corruzione dilagante, il degrado inarrestabile di un Paese lacerato da faide intestine, camuffate da anacronistiche lotte religiose, ce l’hanno contro un sistema imbelle, servo della Siria, dell’Iran, d’Israele, degli Stati Uniti e, da ultimo della Francia (il giorno dopo la strage, come uno sciacallo, è arrivato Macron!). A quando la mano pesante della Turchia?

        Ce l’hanno contro tutti, gli Hetzbollah, gli integralisti musulmani, i Palestinesi dell’OLP e i cristiani di destra, i capitalisti ladri, gli immigrati palestinesi, i Drusi fanatici, i terroristi della Jihad e le varie cosche siriane annidate nel Paese. Dimessosi qualche ministro, anche il governo alla fine ha ceduto le armi. Soluzione? Il prima possibile si faranno nuove elezioni. Un’ennesima presa in giro.

        Il Libano è ammalato, a rischio di perdere la sua difficile indipendenza, un frammento di civiltà occidentale nel ribollente mare dell’islamismo mediorientale. Governi corrotti e deboli, truppe siriane d’occupazione, guerre civili striscianti, pressione israeliana nel sud del Paese, rombi di guerra permanente ai confini. Dov’è lo Stato del Paese dei Cedri?

        La ricostruzione sarà forse possibile. Nuovi edifici sorgeranno accanto a quelli distrutti, ma è la mala genia della politica libanese che va cacciata e non saranno certo le generose proteste dei giovani, affrontati dalla polizia, a cambiare le cose e a rigenerare  in una democrazia di carta pesta valori perduti. Troppo interferenza esterne, nuove a antiche, su questo disgraziato Paese. Non basteranno certo i fondi internazionali a risolvere i problemi strutturali del Libano.

        La Bielorussia è la sala d’attesa prima d’entrare nella Russia di Putin. In mille anni di storia Minsk, la sua capitale, è stata rasa al suolo diciotto volte. Nell’ultima guerra mondiale ha perduto almeno un terzo dei suoi abitanti (oggi sono circa 10 milioni), nel 1968 ha subito i gravissimi danni dell’esplosione del reattore nucleare di Cernobyl. Divenuta indipendente al momento della dissoluzione dell’Unione Sovietica, è rimasta nell’orbita russa, guidata dal pugno di ferro di Lukaschenko, ex comunista. E’ l’unico Paese del vecchio blocco sovietico che continua a chiamare il proprio servizio segreto KGB.

        Incuneata fra i Paesi baltici e l’Ucraina, ai confini con la Federazione russa, è ostaggio dei postumi della guerra fredda e delle ambizioni imperiali di Putin. Nuove elezioni “bulgare”, sembra, hanno confermato per l’ennesima volta Lukashenko, ininterrottamente al potere dal momento dell’indipendenza (1994).

        Inevitabili i dubbi sulla regolarità delle elezioni, irrefrenabile la protesta delle opposizioni e, soprattutto, dei giovani, vogliosi di libertà. La repressione è pesante, il capo dell’opposizione si è rifugiata in Lituania, temendo per sé e per la vita del marito (in galera) e dei figli, il Paese è in fermento. Come andrà a finire?

        L’esempio dell’Ucraina è negativo, vista la reazione russa ai tentativi di Kiev di sganciarsi dal monolite russo. Ma è anche uno stimolo a prendere la via di una vera indipendenza.

        Lukashenko è debole di fronte alla protesta esplosa nelle principali città bielorusse. Se ha truccato le elezioni l’ha fatta grossa e cerca la mamma, accusando complotti di presunti mestatori al servizio di governi stranieri. La solita solfa per chiedere l’intervento di Putin, il padre padrone. Putin ha già detto che l’appoggerà per garantire la sicurezza. Di chi? Degli oltre settemila oppositori arrestati e torturati dalla polizia di Lukashenko? L’Unione europea contesta le elezioni presidenziali e si rifiuta di riconoscerne l’esito. Figurarsi gli Stati Uniti, ben felici di creare problemi a Putin! In mezzo, c’è la gente.

        La Bielorussia, però, è un boccone troppo indigesto per tutti. Anche l’Occidente è cauto. Minaccia sanzioni che lasciano il tempo che trovano e affamano un popolo che non vive nell’abbondanza. Inoltre, sollevano un problema sulla credibilità della politica di pace di Mosca, ostilissima all’idea di un’Ucraina e di una Bielorussia davvero autonome e magari  vogliose di Occidente. Troppo delicati sono gli equilibri su quel saliente orientale, anche perché questi due Paesi sono stati da sempre i bastioni di difesa contro una penetrazione militare verso la Russia.

        I tempi sono cambiati, le armi sono diverse ma in termini di strategia complessiva questi sono Paesi troppo sensibili per Mosca.

        A questo punto, come per quasi tutti i Paesi dell’ecumene occidentale, l’autonomia è un optional nelle mani delle grandi potenze, merce di scambio in funzione dei loro interessi nelle varie parti del mondo. I molti populisti che sognano la sovranità reale dei loro Paesi sono serviti.

Roma, 15/o8/2020