Luigi Manconi: “Sogno un mondo senza carcere. Il culto della cella va demolito”

 “La prigione e la caserma sono istituzioni totali” in cui “regnano cameratismo e complicità virile”. “La legge sulla tortura porta il mio nome, ma non la riconosco come mia. La mia proposta prevedeva un reato proprio per qualificare gli abusi dei pubblici ufficiali”.

La caserma degli orrori di Piacenza dimostra per Luigi Manconi, sociologo dei fenomeni politici, già presidente della commissione per la tutela dei diritti umani del Senato, presidente di “A Buon Diritto Onlus”, che nel nostro Paese esistono le cosiddette “istituzioni totali”, dove vigono complicità virili, potere intimidatorio e senso dell’impunità. Ma in questa lunga intervista abbiamo discusso anche di abolizione del carcere, di 41bis, di rapporti Italia-Libia.

I gravi fatti di Torino e Piacenza ci raccontano di detenuti e cittadini temporaneamente sotto la custodia dello Stato che sarebbero stati umiliati e torturati dai loro stessi custodi. Come può accadere tutto questo?

Può accadere perché il carcere e la caserma sono istituzioni totali, secondo la classica definizione di Erving Goffman: sono strutture chiuse, sottratte allo sguardo esterno e al controllo dell’opinione pubblica e della rappresentanza democratica. Dentro queste istituzioni totali operano corpi specializzati dello Stato che per loro stessa natura sono organismi coesi, integrati, autoreferenziali, dove regnano una forte solidarietà tra i membri, un robusto cameratismo, una complicità virile che facilmente si traduce in connivenza e omertà. Secondo la legge, d’altra parte, questi corpi statuali posso esercitare l’uso legittimo della forza a fini di controllo e repressione. Si tratta di un potere cruciale e delicatissimo che richiede da un lato grande lucidità e dall’altro la possibilità di un controllo esterno, perché è facile che possa trascendere e diventare arbitrio. Questo arbitrio rischia di affermarsi e riprodursi senza che le istituzioni democratiche possano esercitare il controllo e dunque denunciare quando quell’uso legale diventa illegale: tanto più che la vigilanza interna sembra latitare. Sono queste le circostanze in cui quegli episodi maturano. E sono tutti elementi che contribuiscono a suggerire una sensazione di impunità.

La formulazione attuale del reato di tortura è efficace per reprimere questo tipo di condotte o come dicono molti aver formulato questa fattispecie di reato come delitto comune e non come reato proprio ha depotenziato l’efficacia della deterrenza?

Le legge sulla tortura porta il mio nome ma io non la riconosco come mia perché il disegno di legge originario da me presentato prevedeva la tortura come reato proprio, in quanto sia la Convenzione delle Nazioni Unite sia le leggi di altri Paesi democratici qualificano la tortura esattamente in questi termini, ovvero quel reato che discende dall’abuso di potere. E che si realizza quando un carabiniere, un poliziotto, un poliziotto penitenziario, un finanziere eccedono il perimetro stabilito dalla legge nell’uso della forza. È da questo abuso che può derivare la fattispecie penale del reato di tortura. Definire genericamente la tortura come una violenza all’interno delle relazioni tra i cittadini è per un verso superfluo, perché i reati adeguati a questo tipo di azione già esistevano nel codice. Invece la nuova figura di reato sarebbe stata destinata appunto a qualificare quei trattamenti inumani e degradanti quando effettuati da pubblici ufficiali o persone facenti funzioni di pubblico ufficiale.

Si dice tanto che in Italia non si tortura “perché non siamo la Turchia”. Salvini e Meloni hanno spesso detto di voler lavorare alla cancellazione del reato di tortura. E invece la cronaca, dagli anni 70 in poi, ci racconta il contrario: dal prof. De Tormentis e la sua pratica del water-bording al carcere di Asti, da Federico Aldovrandi a Giuseppe Gulotta, dalle torture praticate a danno di cinque brigatisti rossi sospettati del sequestro del generale Usa James Dozier fino alla condanna per i fatti di Bolzaneto, non dimenticando le celle lisce di Poggioreale. Qual è il suo pensiero?

Il reato di tortura viene introdotto nell’ordinamento italiano solo nel 2017, ben 28 anni dopo la ratifica da parte dell’Italia della Convenzione delle Nazioni Unite. Faccio notare che quando il nostro connazionale Giulio Regeni viene rapito, seviziato, torturato e ucciso in Egitto, in Italia il reato di tortura ancora non esisteva. Ritengo che tra le molte ragioni dell’inerzia con la quale il nostro Paese ha affrontato la vicenda di Regeni c’era anche il fatto che l’Italia avesse una sorta di senso di colpa nel pretendere verità e giustizia da uno Stato dispotico quando al proprio interno quel reato non era ancora previsto. L’Italia non ha avuto la forza giuridica e morale di esigere quella verità anche perché non aveva le carte in regola.

E riguardo la tortura all’interno dei nostri confini?

Ritengo che in Italia non vi sia una pratica sistematica della tortura. Che invece molti siano stati i casi di trattamenti inumani e degradanti è indubbio, si sono verificati più volte. La frase più sciocca che si possa dire è quella delle mele marce, che è una metafora giustificazionista.

A proposito di questo: dal caso Cucchi a quello dell’americano accusato della morte di Cerciello Rega bendato nella caserma, passando per lo stupro delle due americane a Firenze. Da quale male è affetta l’Arma dei Carabinieri?

Intanto questi episodi sono davvero troppi. Nel caso di Piacenza una stazione dei carabinieri è stata ridotta a cellula criminale. Ma tre anni fa un’altra caserma dei carabinieri di Aulla in provincia di Massa Carrara ha avuto lo stesso trattamento da parte della magistratura: non c’è stato il sequestro dell’edificio ma l’azzeramento di quella postazione perché all’interno spadroneggiava una gang di carabinieri coinvolti in attività criminali. E ricordo che 11 anni fa in occasione del tristissimo caso Marrazzo emerse come la caserma Trionfale avesse al proprio interno una intensa attività delinquenziale. Ci sono gli episodi da lei citati – tutti da valutare in maniera differenziata – però resta una frequenza un po’ inquietante. Penso proprio che il ruolo particolare che l’Arma dei carabinieri svolge tra le forze di polizia, i consensi di cui gode nella società, il fatto che dipenda dal Ministero della Difesa, e che ci sia una elevata capacità dell’attività di repressione alimentino la sensazione di impunità ed esaltino le caratteristiche proprie delle istituzioni totali. All’interno dell’Arma si formano gerarchie informali che esercitano un potere intimidatorio, gruppi – veramente esemplare la situazione di Piacenza – che si costituiscono come agglomerati di potere e questo potere viene esercitato per un verso per accumulare risorse economiche e per l’altro verso per affermare una autorità illegale.

Oggi si terrà il consiglio direttivo di Nessuno Tocchi Caino dedicato al 41bis, che Sergio D’Elia sul nostro giornale ha definito “un regime di tortura”. Non posso non ricordare il suo grande lavoro in Commissione Diritti Umani proprio su questo tema. Secondo lei è possibile mettere seriamente in discussione questo istituto giuridico?

Secondo la legge il regime di 41bis ha un solo scopo: impedire i collegamenti tra coloro che vi sono sottoposti e la criminalità esterna. Tutto ciò che eccede questo scopo è semplicemente fuori legge. Per questo penso che quel regime costantemente rischi di scivolare nella illegalità: vengono attuate limitazioni, provvedimenti di censura o misure di controllo che non sono previste in quanto non destinate a garantire il raggiungimento del solo scopo che il 41bis persegue. All’interno di questo quadro non c’è il minimo dubbio che alcune condizioni possano configurare la fattispecie di tortura. Non si dimentichi che, anche nella legge italiana contro la tortura, si parla di violenza psicologica: che al 41bis ci siano violenze psicologiche è indubbio.

In una intervista sul Riformista a Gherardo Colombo ieri si è parlato del carcere che ha assunto la sola funzione di punire e non di rieducare…

Con Gherardo Colombo vagheggiamo da tempo un libro che avrebbe come titolo “Abolire il carcere”. Ma, in realtà, quel libro io e miei collaboratori lo abbiamo scritto già cinque anni fa: e resta l’idea di un’esigua minoranza. In Italia una corrente abolizionista esiste: ad esempio c’è Livio Ferrari che ha creato il movimento “No prison”. Ed è una prospettiva che sta conquistando lentamente, molto lentamente, consensi. Il carcere è inutile, diseconomico e controproducente. Il carcere riproduce all’infinito crimine e criminali. La prospettiva dell’abolizione del carcere è quanto mai ragionevole. Ma siccome non siamo degli utopisti ma dei realisti sappiamo che questo obiettivo è di lunga gittata. Occorre un programma possibile di provvedimenti che prima di tutto riduca al minimo il ricorso al carcere e che possa far sì che la sua abolizione non sia la profezia di un sognatore, ma una concreta direzione di marcia.

Però politicamente è forse impossibile…

Politicamente tutto ciò, in particolare in questo momento, risulta quanto mai arduo perché il peso che il Movimento 5 Stelle ha all’interno della maggioranza di governo ma anche il peso che hanno le sue tesi soprattutto all’interno del senso comune della mentalità collettiva, è fortissimo.

Però anche il Pd ha fatto deflagrare per convenienza elettorale la riforma sull’ordinamento penitenziario che avrebbe potenziato le misure alternative…

Sono sempre contrario a queste interpretazioni ossia “per calcolo elettorale”. Sicuramente anche per esigenze elettorali ma c’è qualcosa di più profondo e duraturo ed è una cultura: una mentalità che ritiene che il carcere debba rimanere carcere, debba rimanere un sistema di sanzioni tutto costruito intorno ad un paradigma che ha nella cella chiusa il suo fondamento. Se il senso comune va in questo senso è fatale poi tradurre tutto ciò in considerazioni di natura elettorale.

L’altro giorno Matteo Orfini ci ha detto che il rifinanziamento da parte dell’Italia della guardia costiera libica è stato il momento più buio della storia del Pd e del Paese. È d’accordo?

Sì, sono d’accordo. Noi proprio per questo lunedì 27 luglio saremo alle 18 a piazza San Silvestro a Roma per chiedere al Governo italiano e all’Unione Europea di azzerare i fondi alla guardia costiera libica ed evacuare e chiudere i centri di detenzione in Libia.

Vorrei però tornare un momento sulla questione culturale: anche in merito alla questione della riforma dei decreti sicurezza il Pd va a traino del Movimento 5 Stelle e sceglie di procrastinare la discussione in commissione…

Il Governo Pd – 5 Stelle è un governo dettato dall’emergenza che ho appoggiato perché mi sembrava rispondesse in quel momento preciso all’esigenza di impedire che vi fosse un esecutivo di centro-destra, guidato da Salvini. Penso che all’interno del Pd vi sia una parte significativa che ha sull’immigrazione una posizione quale quella che si è manifestata con la gestione da parte di Minniti. È una posizione non solo legittima ma che non è – e su questo insisto – la stessa posizione di Salvini, pur essendo, a mio avviso, errata. Ho criticato molto Marco Minniti, ci tengo molto però a distinguere. Salvini ha introdotto una rottura, non c’è continuità tra le due gestioni come troppi scioccamente dicono. Ad esempio, l’abolizione dello Sprar fatta appunto da Salvini è stata veramente una lesione profonda al sistema dell’accoglienza. Aggiungo che quando nel Mediterraneo si sono create situazioni di emergenza e ci sono state richieste di attracco da parte delle Ong a me è capitato tante volte di trovare una interlocuzione positiva con Minniti, visto che svolgo un po’ la funzione di lobbista delle Ong. Certo, la stessa cosa non è accaduta con il Ministro Salvini.

 

 Fonte: di Angela Stella/ Il Riformista, 25 luglio 2020