La Caporetto delle toghe ma la politica non sa che fare

La partita sulla giustizia si sta disputando in un acquitrino mefitico. Non che prima i giocatori brillassero di far play o che il campo fosse immune da buche e trabocchetti. Anzi. Dal caso Tortora in poi – da oltre 30 anni – la disputa sui temi della giurisdizione è stata un susseguirsi di agguati mediatici, di piccoli e grandi scandali, di incarcerazioni e scarcerazioni eccellenti, di assoluzioni e condanne da prima pagina.

Sia chiaro: nulla di particolarmente doloroso o di irreparabile. Scaramucce, qualche insulto, qualche bastonata a casaccio, ma convinti i duellanti che niente di irreversibile sarebbe accaduto e che nessuno rischiava di perdere davvero. Anche oggi sarebbe facile dire: “nihil sub sole novum”.

Perché questo, in effetti, sembra l’atteggiamento di molti dei protagonisti in questi mesi. In tanti pensano che, a ben guardare, non c’è nulla di (più) grave (del solito), che anche questa buriana passerà e che si tornerà a guerreggiare come prima, acconciando le trincee al meglio, sistemando un cecchino qua e là per sparare a qualche sprovveduto che si avventurasse nella “terra di nessuno” del dialogo, ma sempre guardandosi bene dal dare troppo filo da torcere al nemico.

Una classica guerra di posizione che, come tutte le ostilità di lunga durata, consente enormi rendite per entrambi i contendenti. Giustizialisti irriducibili e garantisti à la page avrebbero avuto ben poco di cui campare se, di colpo, lo scontro avesse avuto fine e se le armi fossero state deposte in nome di un’equilibrata riforma della macchina giudiziaria.

Oggi, come altre volte, l’intento è quello di acconciare una soluzione, di trovare un “tavolo di accomodamento” come direbbero in Sicilia. In genere per attenuare le polemiche e per scrollarsi di dosso le troppe critiche non vi era nulla di più utile che una bella sequenza di convegni, congressi, documenti, confronti televisivi, articoli di stampa, esortazioni autorevoli.

Insomma tanti auspicano che sia solo l’ennesimo scontro in una guerra a bassa intensità in cui molti hanno troppo da perdere e pochi hanno troppo da guadagnare. Perché, come i fatti dimostrano, nessuno vuole davvero tagliare i ponti, nessuno auspica una netta separazione tra giustizia e politica, nessuno intende veramente ergere muri.

I pontieri delle due parti sono all’opera da decenni, sono i mediatori degli incarichi fuori ruolo, delle nomine, delle leggine all’acqua di rosa. Sono quelli su cui converge il sostegno delle toghe e dei loro (sedicenti) avversari. Se non fosse. Se non fosse che tutta questa ammuina si fonda sulla capacità dei contendenti di orientare – a fasi alternate e secondo le necessità – la pubblica opinione sospingendola a destra e manca in un moto pendolare continuo che dura da un paio di decenni. In altre parole, le toghe saranno pure cattive, ma non troppo, ma non tutte. Poi, al prossimo scandalo, alla prossima ingiustizia, alla prossima vittima da risarcire, la scoperta che di quelle toghe non si può fare a meno per ripristinare l’ordine infranto dal reo. È così da decenni. Avanzate e arretramenti con le cadenze di un metronomo regolato a convenienza.

Finora tutto bene. Qualche riformetta, qualche piccolo aggiustamento, qualche graffio alla carrozzeria lucente della fuoriserie giudiziaria. Ma nulla di decisivo e nulla cui non possa porsi rimedio con un prossimo governo con cui stringere legami e patti. Però ora si insinua pericolosa l’impressione che si sia andati d’improvviso ai tempi supplementari e che la clessidra stia rapidamente dissipando la sabbia a disposizione. Avanza il timore che la lunga guerra di trincea potrebbe esaurirsi in fretta e i contendenti iniziano a dar segni di un’ansia sinora mai veramente messa in mostra. Hanno forte la sensazione gli strateghi dei due campi che, questa volta, potrebbe ingaggiarsi una battaglia decisiva per le sorti del conflitto istituzionale e politico che si consuma sui temi della giustizia penale. Si badi bene: pure Stalingrado o Midway furono battaglie decisive anche se poi sono occorsi anni per giungere alle fine.

Si sta profilando, inaspettato, un lento ma inesorabile mutamento dei rapporti di forza tra magistratura e politica, un capovolgimento tra assedianti e assediati con le toghe chiamate a rendere conto non di questa o quell’ingiustizia o di questo o quel fallimento investigativo, ma di una complessiva gestione della giustizia. Con il paradosso che la Caporetto del fronte togato ha colto del tutto alla sprovvista l’altra parte della barricata incapace di far altro che dolersi e lamentarsi di qualche asserita ingiustizia patita, ma del tutto priva di una visione complessiva della nuova situazione che si sta venendo a consolidare. Galli della Loggia, a proposito, ha adoperato parole chiare e condivisibili quando ricorda che i magistrati sono investiti da un “giudizio ingiustamente sommario, se si vuole, ma inevitabile dal momento che la gravità dei fatti cancella fatalmente i pur necessari distinguo” (Corriere della sera del 29 giugno).

Non si tratta più di separare le toghe perbene da quelle disoneste, né di dolersi dell’incidenza di qualche scandalo su una pubblica opinione, paternalisticamente descritta come “disorientata e sgomenta”, quanto di prendere atto che si sta sedimentando e amplificando un sentimento di complessiva messa in stato d’accusa della corporazione che esige – nell’interesse degli stessi giudici – una risposta rapida e risolutiva. L’idea di una restaurazione che porti indietro le lancette dell’orologio a prima dell’affaire Palamara e dei suoi recenti corollari è possibile alla sola condizione che si ceda alla tentazione di una guerriglia strada per strada, ossia di adoperare la massa delle informazioni disponibili per criticare questa o quella nomina, questo o quell’inciucio, questo o quel processo.

Chi ha interesse a ciò ha i mezzi a disposizione per far valere le proprie ragioni e molti lo faranno (ben tre ricorsi contro la designazione del procuratore di Roma sono un evento senza precedenti, o quasi, nella storia del Csm). Compito di chi ha a cuore il destino dei cittadini nelle aule di giustizia – la sola cosa che conti, ben prima delle carriere dei giudici e delle parcelle degli avvocati – è quello di denunciare che un intero modello di regolamentazione della giustizia mostra crepe insanabili e che i Costituenti hanno compiuto un’opera, al tempo sublime, ma che tuttavia non ha retto all’urto dell’evoluzione sociale e politica della magistratura in Italia.

Senza questa visione le acque, separate dallo scandalo, torneranno a chiudersi sui fondali limacciosi e tutto si placherà, come sempre. Un grande esperto in pensione di analisi strategica alla domanda su cosa ne pensasse delle vicende di queste settimane ha risposto: “il problema non è capire cosa abbia fatto Palamara, ma comprendere chi o cosa ne abbia preso il posto”. Troppo pessimista. Troppo umano.

Fonte: di Alberto Cisterna/ Il Riformista