Magistratopoli e i Pm che da soli valgono un partito

 Esiste in Italia un partito dei pubblici ministeri? In senso formale sicuramente no. E la stessa risposta negativa si deve dare se si ricorre alla definizione politologica più accreditata di partito: “Un partito è qualsiasi gruppo politico identificato da un’etichetta ufficiale che si presenta alle elezioni, ed è capace di collocare attraverso le elezioni (libere o no) candidati alle cariche pubbliche” (Sartori, Oxford, 1976).

La partecipazione alle elezioni e il vaglio del consenso popolare sono indispensabili perché un’azione politica possa dirsi organizzata nella forma-partito. Un’associazione che si definisse partitica e che si sottraesse sistematicamente alle competizioni elettorali sarebbe un guscio vuoto, una polisportiva delle chiacchiere. Partito-elezioni-potere è una triade inscindibile a prescindere, come ricordava Sartori, dal fatto che le votazioni si svolgano liberamente o meno. La storia è piena di partiti fantoccio a copertura di tirannie.

Certo, però, se la discussione politica e i mass media – sia pure con accenti più o meno critici – ritengono tutti e da anni che questo partito dei pubblici ministeri esista e operi la questione merita di essere presa in esame secondo prospettive diverse. In questa declinazione vicaria per “partito” si dovrebbe intendere l’agglutinarsi delle toghe intorno ad alcune convinzioni, la condivisione di alcune idee circa la funzione giudiziaria, cui seguirebbe una vera e propria azione di influenza politica. Ma anche questa volta i conti non tornano.

I tornei correntizi del Csm disvelati di recente hanno per oggetto, quasi esclusivo, la scelta dei titolari di uffici di procura (Roma, Perugia, Torino, Napoli, la Nazionale antimafia e via seguitando). Da quel materiale emerge che queste competizioni hanno dato luogo a scontri ferocissimi, a raid senza esclusione di colpi. Sino all’idea di una manipolazione delle indagini per sopprimere gli avversari. Insomma, nulla che sia corrispondente al modello di un partito unico dei pubblici ministeri che normalmente circola.

I duellanti per il monopolio dell’azione penale nella Capitale o nel borgo più sperduto si guardano in cagnesco, si fanno causa e lanciano veleni e veline di ogni genere gli uni contro gli altri, al punto tale da poterli definire con grande difficoltà componenti di uno stesso movimento o gruppo.

E quindi? Una mano ce la può dare il Sommo: “Sì ch’a te fia bello averti fatta parte per te stesso” (Paradiso, canto XVII, 69). Non esiste un partito dei pubblici ministeri per la semplice ragione che – da un certo punto in poi, dallo sgorgare di una certa smisurata ambizione in poi – l’ego tendenzialmente ipertrofico dell’inquirente volge lo sguardo a sé stesso e rimirandosi (verrebbe da dire) insieme alla sua corte di poliziotti, carabinieri e via seguitando, matura l’idea di essere il migliore o uno dei migliori.

Lo ha detto con chiarezza il reprobo ex-presidente dell’Anm: tutti immaginavano di meritare, tutti ritenevano di aver diritto, tutti sentivano di poter primeggiare. E insieme a loro entra in fibrillazione anche la selezionata corte di investigatori da questi scelta nel tempo che, in uno con il nubendo, partecipa dei suoi fasti e soffre per i suoi nefasti, che intravede prospettive di carriera o di promozioni a seconda che il “proprio” pubblico ministero gareggi e vinca oppure soccomba.

La questione dovrà essere ripresa e completata, ma un primo punto deve essere messo in evidenza. Certi pubblici ministeri – ma sempre tanti pubblici ministeri – interpretano il proprio ruolo come immancabilmente volto alla costituzione di una immagine mediatica spendibile.

Per realizzare questo fine occorre una compagine appropriata che sia cooptata e fidelizzata e che si muova a testuggine, scalzando chiunque si frapponga al successo di quel micro-cosmo e di quel micro-partito in toga. È come in certi consigli regionali o, un tempo, alle Camere in cui bastava anche un solo componente per costruire un gruppo e rappresentare un partito. Talvolta sono i pubblici ministeri a essere fagocitati da apparati investigativi, enormemente più efficienti e capaci di loro, che li trasformano in proprie appendici giudiziarie e trojan nel plesso della magistratura italiana di cui apprendono segreti e maldicenze e di cui condividono odi e alleanze. La combinazione delle due direttrici ha, poi, nei rari casi in cui si realizza, effetti “eversivi” rispetto all’ordinato funzionamento delle istituzioni e all’insopprimibile separazione dei poteri dello Stato.

Si creano Leviathan promiscui, ibridi poliziesco-giudiziari, meticci investiganti che si sorreggono vicendevolmente, che scalano posizioni e uffici, che condizionano finanche i vertici ergendosi a poteri autonomi, autoreferenziali e autocontrollati. Meglio ancora se questi “partiti”, nei propri flussi migratori, hanno a disposizione giornalisti embedded da manovrare per mirate fughe di notizie, per tempestive campagne di stampa o per approntare selezionate divulgazioni di atti riservati.

Questi raggruppamenti purulenti e maleodoranti aleggiano inquietanti nelle vicende dell’ex presidente dell’Anm e di essi è sembrato, a più riprese, che il dottor Palamara intenda parlare. Non si tratta più di proteggere la corporazione dagli scandali, né le toghe da qualche disdicevole prassi spartitoria. La magistratura italiana – come la Chiesa – è da decenni una “casta meretrix” (Sant’Ambrogio, Commento al Vangelo di Luca) e da sempre ha ceduto a simili debolezze.

La posta in gioco che si intravede nei ritagli delle dichiarazioni sembra essere un’altra e ben più importante. La sola impressione che qualcuno si stia freneticamente operando per mettere in lockdown un’angosciante verità e porre a tacere chi custodisce segreti indicibili dovrebbe allarmare la pubblica opinione.

I troppi pm-partito che sono cresciuti all’ombra di questa diversione costituzionale hanno da preoccuparsi e molto per ciò quello che potrebbe avvenire. Non è in discussione un sistema di nomine (se ne troverà un altro), ma il patto scellerato che si potrebbe essere realizzato in alcuni cupi anfratti della corporazione inquirente tra magistrati, pezzi delle forze di polizia e segmenti del giornalismo.

Un patto che rappresenterebbe, purtroppo, una parte della Costituzione materiale del paese e sul quale invano, come sempre, aveva lanciato i propri moniti Giovanni Falcone: “Una polizia giudiziaria, che dipende direttamente dal pubblico ministero, ben poco serve ad accrescere la sua autonomia e indipendenza, se poi il pubblico ministero non è in grado di dirigerla” (Interventi e proposte. 1982-1992) o vi instaura reciproche relazioni di servizio e utilità.

Fonte: di Alberto Cisterna/Il Riformista, 13 luglio 2020