Si apre con un’epidemia la grande letteratura occidentale. Apollo scende irato sui campi degli Achei all’inizio dell’Iliade (dalle vette scese d’Olimpo, col cruccio nel cuore, e su le spalle l’arco reggeva, e la chiusa faretra; … scendeva, pareva una notte … sugli Achei lanciando amarissimi dardi, li sterminava; e fitte le pire ardevano sempre dei morti). Un’epidemia apre la più grande delle tragedie, turbando Edipo Re di Tebe (l’infestissima peste su Tebe incombe e la tormenta, e dei Cadmèi vuota le case, sì che l’Ade negro, diventa opulento d’ululi e di pianti). Il secolo d’oro di Atene è devastato da una delle epidemie maggiormente rimaste nell’immaginario del mondo, per la descrizione che ne fa Tucidide e la versione sconvolgente che ne dà Lucrezio in chiusura al suo poema (trasudava di sangue la bocca annerita e si chiudeva la gola, ostruita da ulcere e dal male stillava sangue la lingua, l’alito spandeva un fetido odore come puzzano i cadaveri putrefatti, … cadaveri giacevano ammucchiati e insepolti … per le vie si potevano vedere corpi orridi per lo squallore coperti di cenci e del marciume del corpo…).

Si stima che la peste Antonina fece fra 5 e 30 milioni di morti durante l’Impero. La peste di Giustiniano forse di più, e disgregò il tessuto sociale (Paolo Diacono ne descrive così una tarda ondata: «Tutti erano scappati e tutto era avvolto nel silenzio più profondo. Figli se ne andavano lasciando insepolti i cadaveri dei loro genitori; genitori dimenticavano i loro doveri abbandonando i loro figli»); alcuni storici la considerano un fattore del crollo della civiltà urbana europea del mondo antico. Alla fine del Medioevo, la peste Nera, in numerose ondate successive, uccide un terzo degli abitanti del’Europa. Nel mio mondo della fisica si ricorda che nel Seicento Newton scrive la sua grande opera durante un ritiro in campagna perché un’epidemia devastava Londra. In Italia ricordiamo la peste a Milano descritta dal Manzoni. A Marsiglia, dove lavoro, si ricorda la peste del 1720, che ha ucciso quasi metà degli abitanti della città. Esattamente un secolo fa, l’influenza chiamata Spagnola ha fatto 50 milioni di morti.

Leggevamo tutto questo nei testi di storia e ci sembrava il passato. Anzi, consideravamo essere quasi il simbolo della modernità il fatto che progresso, sapere scientifico, maestria dell’uomo sulla Natura, ci avessero portato fuori da questi incubi del passato. Oggi il dilagare della pandemia ci risveglia da questa illusione. Il progresso è meno potente di quanto pensassimo.

È una lezione di umiltà da tenere ben presente. Rendiamoci conto della nostra debolezza. In Italia c’è una sensazione allegra che il peggio sia passato, ma non sappiamo se la malattia stia rallentando o se abbiamo solo attraversato la prima di ondate successive, come accadeva nelle grandi epidemie del passato. Speriamo molto in un vaccino, ma per ora non l’abbiamo, e solo una piccola minoranza di noi è ora forse immune.

Il confronto con la devastazione delle epidemie del passato, tuttavia, ci deve fare riflettere e ci mostra che non dobbiamo sottovalutare gli strumenti che abbiamo. Per difendersi dall’epidemia, gli Achei hanno restituito a un sacerdote di Apollo la figlia violentata da Agamennone. Azione buona, certo, ma che non deve aver avuto grande efficacia sul morbo. Edipo manda il cognato a Delfi a chiedere lumi su come liberarsi del male, con l’unico risultato di infilarsi in un ben noto ginepraio: la Pizia gli risponde che ha ucciso suo padre e sposato sua madre. Manzoni racconta di processioni contro la peste: esattamente quello che non bisogna fare.

L’umanità è stata a lungo del tutto impotente nei confronti delle epidemie. Non siamo nella stessa situazione.

Non sappiamo come evolverà, ma per ora nel mondo la pandemia ha fatto quattrocentomila morti: molti, ma ancora pochissimi rispetto alle grandi epidemie del passato. A Milano e a New York abbiamo sentito le sirene delle ambulanze, ma non lamenti di moribondi sopra mucchi di cadaveri nelle strade. L’esistenza di un test, le cure intensive negli ospedali, gli antibiotici per le complicazioni batteriche, hanno salvato centinaia di migliaia di vite. Le decisioni politiche sul distanziamento sociale, poggiate sui calcoli degli epidemiologi, hanno evitato il collasso dei sistemi sanitari, riducendo drammaticamente il numero di decessi. La speranza di un vaccino non è campata in aria: è concreta. Se da un lato non dobbiamo commettere l’errore di pensare di essere onnipotenti, dall’altro non dobbiamo neppure disconoscere il valore dei tanti strumenti medici, scientifici, culturali ed economici di cui disponiamo e che i nostri padri non avevano.

Questi strumenti non sono appannaggio di un Paese o dell’altro: sono stati sviluppati dalla collaborazione dell’umanità intera; il loro sviluppo continua globalmente. Il riconoscimento rapidissimo del virus, lo sviluppo dei test, i modelli necessari per controllare l’epidemia, sono tutti saperi globali, resi possibili dall’immediata collaborazione internazionale. Gli strumenti con cui ci siamo difesi, dai ventilatori alle mascherine, sono state prodotti in Paesi che hanno rifornito il mondo intero.

Se e quando troveremo un vaccino, non ci sarà un Paese che ha un vaccino e gli altri no, a meno che non facciamo sciocchezze. Sarà l’umanità intera che condivide un vaccino, speriamo. Ci siamo difesi meglio che nel passato grazie al fatto che l’umanità ha saputo collaborare. Se il virus fosse arrivato alle nostre frontiere incontrando un Paese isolato e chiuso in se stesso, sarebbe stato molto più devastante, come sono state devastanti le epidemie che arrivavano nel passato.

Gli effetti storici delle epidemie sono stati i più vari e sono difficili da valutare. Forse alcune hanno accelerato crolli di civiltà. Forse la peste del Trecento ha favorito l’avvio della modernità in Europa. Speriamo che la pandemia odierna resti minuscola comparata con le grandi epidemie del passato; nessuno sa come evolverà e nessuno oggi sa davvero quali e quanti effetti stia avendo sull’umanità. Ma nei momenti in cui si prova paura, si hanno due istinti opposti: aiutarci l’un l’altro, oppure chiuderci in piccoli gruppi e difenderci contro gli altri.

Penso che il futuro del mondo dipenda da quale di questi due istinti prevalga oggi.Il secondo atteggiamento, la chiusura contro gli altri, è purtroppo diffuso. Sento voci dire che l’epidemia è dovuta alla globalizzazione, e per questo la globalizzazione diminuirà. Altre dire che i Paesi, o le grandi regioni del mondo, devono diventare autosufficienti e non dipendere dagli altri, come se ogni Paese potesse davvero produrre tutto l’essenziale per tutte le evenienze. Voci si stanno levando forti e rabbiose nel mondo per dare colpe ad altri dell’accaduto, spesso per deflettere accuse per propri errori commessi. Le tensioni aumentano nel pianeta.

Se questo istinto di chiusura e conflitto prevale, se prevale la logica del «meglio salvarsi da soli», allora quest’epidemia sarà disastrosa per l’umanità. Il primo Paese che svilupperà il vaccino, per esempio, lo vorrà tenere per sé. Qualcuno ha già proposto di farlo. La rottura dell’interdipendenza economica, di cui si parla in diverse parti del mondo, è aprire la porta a conflitti crescenti, alle guerre, alla povertà diffusa. A rigettare nella miseria i milioni di esseri umani che ne sono usciti negli ultimi decenni. Se la nostra logica è «prima gli italiani», allora non possiamo sperare che qualcuno aiuti noi nel momento della difficoltà, o che qualcuno condivida con noi medicine, cure, beni, il vaccino.

Se invece questa crisi, che è globale, ci aiuta a capire quanto l’umanità condivida rischi che sono comuni, minacce comuni, e soluzioni comuni dei problemi, se rafforza la consapevolezza che dobbiamo lavorare insieme, stabilire regole comuni, condividere, mettere in comune risorse, imparare a fidarci l’uno dell’altro, allora possiamo continuare a difenderci. L’Italia è un piccolo Paese con più influenza nel mondo di quanto di solito non ritenga. Si è trovata nella spiacevole posizione di avanguardia dell’Occidente nell’affrontare la crisi. Nel mondo è stata osservata con attenzione, apprezzata, e seguita, nelle sue difficilissime scelte. Spero sia capace di alzare una voce forte e chiara contro le tante voci spaventate che oggi nel mondo chiedono chiusure.

L’unica strategia che ci permette di difenderci dalle crisi è aumentare la collaborazione globale: politica, economica e scientifica. La pandemia in corso non è finita e non sarà l’ultima crisi seria a cui dovrà fare fronte l’umanità. Altri allarmi sono stati lanciati, come gli allarmi che erano stati lanciati per il rischio di pandemia. Se la politica mondiale si orienta verso l’apertura, la collaborazione, la risoluzione comune dei problemi dell’umanità, abbiamo una possibilità di superarla. Se reagiamo chiudendoci, se prevale la logica devastante del «prima noi», ci facciamo del male da soli, cadiamo in una reazione irrazionale come chi faceva processioni nel Medioevo.

Non ci si difende da un virus chiudendo frontiere, diminuendo gli scambi, o producendo cose in proprio: virus e batteri viaggiavano anche al tempo di Ettore e Achille.

Fonte: di Carlo Rovelli/ Corriere della Sera – 30 maggio 2020