Neppure coloro che sono stati “mascariati” dalla sputtanopoli togata, dicono che si dovrebbe smetterla con l’uso strabordante dei trojan?

Togliete loro tutto ma non il trojan, dio dei pubblici  ministeri  kamikaze”

 Neppure ora l’Anm rinnega le intercettazioni. Ventitré marzo 2018. Aula magna della Corte d’appello di Roma. Un grande convegno, uno dei più importanti incontri sulla giustizia degli ultimi anni, vede discutere insieme i capi delle maggiori Procure del Paese con gli avvocati dell’Unione Camere penali.

È la giunta presieduta da Beniamino Migliucci ad aver convocato l’adunanza. Si discute di intercettazioni. Alcuni dei procuratori, per esempio il numero uno dei pm palermitani Franco Lo Voi, difendono con energia persino il diritto dell’imputato “che sa di essere colpevole” di “cercare senza problemi, nel materiale captato, una comunicazione che autorizzi un dubbio” e di “utilizzarla nel processo”.

Il testo destinato all’epoca a entrare in vigore, la riforma Orlando, limita parecchio l’accesso del difensore all’archivio segreto. Di fatto lo costringe a passare alcune migliaia di ore in una stanzetta del palazzo di giustizia, munito di auricolari ma senza poter copiare i file, nella speranza di imbattersi prima o poi in un passaggio, una frase, una battuta del proprio assistito che porti conforto alla tesi difensiva.

Una follia. Come una follia è la previsione, sempre inserita in quel testo di riforma, per cui è la polizia giudiziaria a selezionare le intercettazioni rilevanti. Quelle che ritiene trascurabili non le trascrive. Al massimo annota in una sorta di registro che l’intercettazione c’è stata e descrive in un titolo secco il contenuto, in modo che il pm, se proprio gli salta la mosca al naso, può chiedere di ascoltare il file e vederci più chiaro.

Quella riforma, due anni dopo, cioè a fine febbraio scorso, cambia in profondità, restituisce il controllo delle operazioni ai pm e la possibilità conoscitiva all’avvocato. Il dialogo di istituzioni e associazioni forensi con la magistratura, insomma, si rivela prezioso. Di fatto sono proprio le osservazioni dell’élite della magistratura inquirente – all’epoca del convegno con l’Ucpi nobilitata dalla presenza di figure del calibro di Spataro e Pignatone, oltre che degli ancora “in ruolo” Lo Voi, appunto, Creazzo, Greco e Melillo – a indirizzare l’edizione finale della riforma targata Bonafede.

Non solo, perché sempre i capi delle grandi Procure, nel dicembre scorso, segnalano al guardasigilli la necessità di rinviare l’entrata in vigore del decreto, in un incontro a via Arenula in cui fanno sentire tutta la loro indiscutibile autorevolezza.

Basti la ricostruzione per ricordare che le intercettazioni sono roba da pm. Sono l’espressione più estrema del loro legittimo potere. Giusto così. Si tratta dello strumento investigativo più penetrante, ovvio che sia l’arma letale dei pubblici ministeri. Ma la circostanza rende ancora più clamorosa la parabola del boomerang tornato addosso alla magistratura col sequel del caso Palamara. Anche perché a essere colpiti non sono tanto i singoli pm chiamati in causa dalle intercettazioni perugine, ma l’Anm nel suo complesso. E l’Anm, altro aspetto notevole, da anni è presieduta quasi solo da pm: Luca Palamara, Rodolfo Sabelli, Piercamillo Davigo, Eugenio Albamonte, Francesco Minisci, Luca Poniz: tutti pm. Ha fatto eccezione solo Pasquale Grasso, giudice del Tribunale di Genova, non a caso quello che è stato in carica meno di tutti.

Ora l’Anm, l’associazione presieduta quasi sempre da inquirenti, è in crisi. E c’è da crederlo. Avete però sentito per caso in queste ore un pm, magari con ruolo di peso nell’Anm o al Csm, magari tra coloro che sono stati “mascariati” dalla sputtanopoli togata, dire che si deve smetterla con l’uso strabordante dei trojan? Qualcuno che abbia aderito alla lezione di Giovanna Maria Flick, intervenuto con un’intervista a questo giornale per ricordare che se è sacra la libertà di manifestare pubblicamente il proprio pensiero, articolo 21, lo è pure quella di esprimerlo in privato, articolo 15, giacché nel diritto di “poter comunicare privatamente con chi vuole, in condizioni di segretezza” è “consacrato il diritto alla diversità e all’identità della persona”?

Nessuno: non c’è alcun cedimento. Togliete loro tutto, ma non le intercettazioni. E nessuno si sognerà di togliergliele, d’altronde, nessuno attenuerà la libertà d’uso dei trojan introdotta da Bonafede con la sua riforma a fine febbraio (ora la riforma è congelata fino al 31 agosto, ma certo nel merito nessuno ha pensato di toccarla).

Nessuno tra i partiti si permette di condurre campagne per corregere quelle norme, tranne, va riconosciuto, la sorprendente Giorgia Meloni che ieri, su La Verità, ha chiesto di rivederle, considerata “l’enorme portata del tema” emersa anche col “caso Salvini-pm”. Ma a parte simili, rare eccezioni, non ci pensa alcuno, a fare passi indietro.

Due sere fa, nella riunione del direttivo Anm, è stato non a caso un magistrato giudicante, Marcello Basilico, persona appassionata e intellettuale progressista autentico, a prendersela proprio con il quotidiano di Maurizio Belpietro, che ha diffuso le “propalazioni” nefaste per l’Anm. I colleghi in ascolto non lo hanno seguito, hanno lasciato cadere la cosa.

E se i colleghi della Verità sono gli unici, in questi giorni, a spiattellare le primizie da Perugia, non è che noi altri ci siamo stracciati le vesti per la nuova ordalia. Al massimo li abbiamo invidiati. Le intercettazioni sopravvivranno a tutto. Alla distruzione di qualsiasi classe dirigente italiana. Dopo quella politica, anche di quella togata. Pronta come un plotone di kamikaze a farsi saltare per aria e a morire per la gloria del captatore informatico. Toglieteci tutto, anche l’Anm, ma non le intercettazioni.

 

 

Fonte: di Errico Novi / Il Dubbio, 27 maggio 2020