La difesa dal potere –  Intervista a   Raffaele Piccirillo   Magistrato con la passione per le lingue   antiche e la filosofia che  ha sempre trovato inquietante  la dimensione del potere

Un bravo magistrato è quello che mette un colpevole in galera o libera un innocente dalla galera? Erano domande a cui noi ragazzi diciottenni, spesso politicizzati quanto bastava, cercavamo di rispondere. Io ne parlavo con Raffaele Piccirillo; all’epoca studiava con buonissimo profitto legge a Napoli e voleva diventare magistrato. Ce l’ha fatta, e tra le altre cose è stato, a partire dal 2014, direttore generale della giustizia penale e poi capo del Dipartimento per gli affari di giustizia. E niente, ho fatto quattro chiacchiere con lui.

Ricordo un pubblico ministero che aveva un taccuino sul quale aveva annotato un elenco di nomi, accanto ai quali metteva una crocetta ogni volta che un pentito menzionava quel nome. Gli chiesi che cosa significassero quei segni. Lui mi spiegò che l’elenco corrispondeva a una serie di persone chiamate in causa da un collaboratore di giustizia. Non appena un altro pentito menzionava quel nome, lui riteneva raggiunto il riscontro e aggiungeva una «x». Così, a prescindere da quanto fossero specifiche le accuse e senza neppure verificare se per caso il secondo pentito avesse sentito quel nome dal primo. A quel punto scattava la richiesta di misura cautelare.

 

C’era un pubblico ministero che, nelle sue richieste cautelari definiva “odioso” qualsiasi crimini, “callido” qualunque espediente, dal pacco in autostrada a una sofisticata bancarotta. E così credeva, con un aggettivo sempre lo stesso, di aver dimostrato la sussistenza delle esigenze delle esigenze cautelari che, nel nostro sistema, sono essenziali per tenere dentro uno non ancora condannato con sentenza irrevocabile.

 

 

Se chiudi gli occhi e ti rivedi ragazzo, a Caserta, tra i 16 e i 18 anni, che cosa vedi? Un ragazzo con le idee chiare sul suo futuro, con un forte senso di giustizia? O altro?

A 16 anni frequentavo il primo liceo classico dai salesiani…

I salesiani di Caserta, io c’ho fatto le medie, tutti uomini e tanto sport… Ma i miei avevano tanto insistito all’epoca…

 

Io invece mi ero iscritto contro il parere di mio padre.

 

Davvero? Contro? Perché?

 

Avevo un amico alle medie con il quale condividevo molti interessi e quella che credevo una vocazione religiosa. Lui in quegli anni entrò nel seminario diocesano. Io non volli entrarci, ma insistetti lo stesso con mio padre perché mi iscrivesse in quella scuola.

Ok, e tuo padre che desiderava?

Mio padre non avrebbe voluto perché laico, minimalista nelle aspettative e perché con sei figli (l’ultimo nato nell’anno del mio quarto ginnasio) e uno stipendio da cancelliere non poteva permetterselo. I salesiani però praticavano uno sconto consistente (il 50 per cento mi pare) a coloro che manifestavano una vocazione religiosa.

 

Ah sì, a saperlo… Pensa che io dai salesiani, dopo tre anni in cui ho servito messa, come chierichetto, sono diventato ateo. Ma vabbè, torniamo alla vocazione e allo sconto, non sapevo di entrambe…

 

Beh, lo sconto che in seguito, quando della mia vocazione si perse ogni traccia, mi fu confermato, credo per i buoni risultati scolastici.

 

Ok, e quindi se chiudi gli occhi, senza vocazione, come ti rivedi?

 

Avevo attitudine per gli studi classici. Traducevo il greco e il latino con naturalezza. Impiegavo non più di mezz’ora, tre quarti d’ora per i compiti in classe. Un’altra mezz’ora la dedicavo a passare il compito ai compagni, con le modifiche necessarie a non farli scoprire.

 

Mannaggia, noi ci siamo conosciuti dopo il liceo, magari mi evitavi gli esami a settembre in latino… Ma eri uno che traduceva alla lettera?

 

No, le mie erano versioni «letterarie»: compreso il senso del testo (con poche aperture di vocabolario), cercavo di renderlo nel migliore italiano di cui ero capace. Ai compagni passavo traduzioni esatte ma più «letterali». A un certo punto, per sfruttare il tempo che mi avanzava prima del suono della campanella, cominciai a tradurre in latino i testi di greco, nonostante la versione greco-latino fosse stata da tempo abolita dai programmi del liceo classico.

 

Quindi la vocazione vera era questa?

 

Forse sì, difatti ricordo pochi pomeriggi di studio intenso della grammatica greca e latina. Pochi ma decisivi.

 

Cioè, studiavi senza studiare?

 

Sì, credo di non aver mai rispettato un assegno. E ancora oggi ho problemi con la gestione del tempo e il rispetto delle scadenze.

 

Verissimo…

 

Tendevo allora, e d’altra parte tendo ancora oggi, a soffermarmi molto sulle cose che mi interessano e a trascurarne altre, pure doverose; a disperdermi in mille curiosità. Per dirne una, approfondivo la letteratura greca, e però accumulavo arretrati in storia o in fisica, che poi recuperavo in angosciose sessioni di studio «monotematico.

 

Altre curiosità dei 16 anni?

 

A 16 anni scoprii la filosofia, grazie a un sacerdote, don Manfredonia, che diversamente da quelli degli amici dei licei «statali» non insegnava tanto la «storia» dei filosofi o il repertorio delle loro «massime», quanto il loro modo di conoscere la realtà, la loro visione del mondo, dell’etica, della politica. Lui era un tomista, un cultore della metafisica, senza le aperture liberali o marxiste che caratterizzavano molti uomini di Chiesa del tempo.

 

Me Io ricordo, sì… E perché è stato importante don Manfredonia?

Perché di ciascun filosofo (anche di quelli che detestava) insegnava con esercizi di immedesimazione  – oltre che la visione ontologica, antropologica, etica e politica – il metodo di conoscenza- l’epistemologia che in seguito, nel mio lavoro di giudice, ha continuato ad essere al centro dei miei interessi.

 

Epistemologia di questi tempi sembra una brutta parola, invece …

 

E invece è una pratica fondamentale per avvicinarsi alla verità. Ho scoperto dopo il falsificazionismo popperiano che continuo a considerare il metodo più democratico di accertamento della verità attingibile dagli uomini.

 

Cioè Popper è ancora importante?

 

Considera il sostrato del processo penale moderno, dove l’infagine del pubblico ministero corrisponde al “contesto della scoperta, nel quale trova legittimo sfogo l’intuizione; mentre il dibattimento – attraversò lo scontro dialettico tra le ipotesi dell’accusa e della difesa – integra “il contesto della giustificazione”, dove vince l’ipotesi che meglio ha resistito ai tentativi di confutazione; e la decisione del giudice non è un prodotto autoritario, ma la testimonianza ragionevole dei risultati di questo confronto.

Ok, dunque, la tua idea di giustizia si è formata in quegli anni, attraverso un processo di conoscenza e di falsificazione della conoscenza stessa…

La mia idea di giustizia si è formata in quegli anni (e anche prima), come idea, ma soprattutto come sentimento: l’indignazione per i privilegi, per l’appartenenza (a una famiglia, a una chiesa, a un partito) come surrogato della cittadinanza, la repulsione per la degenerazione familistica e clientelare della politica, per il merito calpestato, per le legittime speranze di ascesa individuale soffocate. Di queste cose avevo una percezione concreta.

 

Era la Caserta di quegli anni a darti questo sentimento concreto?

 

Sì, ma anche gli incubi della mia esistenza e l’eredità più autentica di mio padre.

 

Cioè?

 

Un uomo eccezionalmente libero; spregiatore ironico – senza spocchia e senza retorica – di ogni forma di servilismo politico, gerarchico e professionale; antimilitarista, in una città piena di caserme e militari; indifferente alle regole della milizia politico-clientelare che conducevano i genitori di molti amici a fare la fila fuori la porta del sottosegretario locale nei giorni del suo onomastico.

Sembra anche un’eredità pesante…

 

Si, infatti, tutto questo aveva ovviamente dei costi. Ma né io né i miei fratelli abbiamo mai contestato a mio padre quella scelta di «disadattamento» che, nella Caserta di quegli anni, poteva significare un destino di frustrazione e di disoccupazione.

 

E come ti difendevi dal destino?

 

Leggevo Sciascia, guardavo i servizi di Joe Marrazzo, avevo visto con mio padre “Le mani sulla  città” e “La sfida” di Rosi, “In nome della legge di Germi”: avevo un’idea ben chiara di quelle che oggi si chiamano le «borghesie mafiose» e dei rapporti necessari tra politica, economia e crimine. È per questo che mi stupisco quando sento parlare, oggi, alcuni colleghi, anche autorevoli, della corruzione politico-mafiosa o dei rapporti tra mafia ed economia come di una cifra caratteristica dei nostri tempi.

 

Concordo, non si stava meglio quando si stava peggio.

Di queste cose Sutherland parlava nel 1940, il rapporto della Commissione Saredo sul risanamento della città di Napoli nel 1900 e il viaggio in Sicilia di Franchetti e Sonnino nella seconda metà dell’Ottocento. Seguivo, poco più che bambino, le notizie e le discussioni di mio padre e mio zio sullo scandalo Lockhéed, sui servizi segreti deviati, sulla strategia della tensione. Ricordo ancora oggi nomi e fatti con la nitidezza dei ricordi infantili.

Ok, quando ci siamo conosciuti, si era alla fine del liceo, volevi fare l’attore, anzi recitavi…

 

Sì, recitavo. Volevo fare l’attore/regista, il giornalista/scrittore, il professore di filosofia, il medico missionario…

 

E poi?

 

L’ipotesi di fare il magistrato risale, mi pare, ai 16/17 anni e si è consolidata in seguito, attraversando stagioni alterne.

 

E racconta l’andamento di queste stagioni.

Nonostante nella mia scelta avesse giocato un ruolo la componente etica e «vocazionale», non ho mai attribuito alla mia professione un ruolo taumaturgico e non ho mai confuso il «peccato» con il reato.

 

Àspe’, spiega…

Ho scelto di fare il giudice, e non il pubblico ministero, anche per questo: il giudice decide e motiva le sue decisioni; in Italia, in particolare, decide e motiva il «fatto» il «diritto»; decide ciò che può essere motivato.

 

Quindi le motivazioni sono una specie di pratica socratica, per conoscere devi combattere te stesso?

Sì, l’obbligo di motivazione costringe a esercizi di autocensura, difende il giudice da se stesso, dai propri pregiudizi, dal <peccato mortale> di spacciare per «massime cli esperienza» comunemente accettate le sue personali convinzioni, radicate su esperienze personali necessariamente limitate, e magari anche frustranti. Cercare di capire, decidere  e rendere conto (a se stessi, alle parti   del processo, ai cittadini, nel cui nome si amministra la giustizia) sono il fascino e la fatica del mio mestiere. Ho sempre avuto chiaro il contenuto di “potere”  della mia professione…

 

Dunque, questo potere implicito nella professione ti obbliga a una responsabilità verso te stesso, e allora, a proposito di motivazioni, mi motivi questa tua dichiarazione?

 

La dimensione del «potere» mi ha sempre inquietato. Trovo che l’ala dell’imbecillità della quale parla Baudelaire in una pagina del suo diario si posi più volentieri e più a lungo sulla testa degli uomini di potere. E poi, da napoletano, ho interiorizzato, come un specie  di acufene, il pernacchio che Eduardo indirizzava, nell’Oro di Napoli di De Sica, al duca Alfonso Maria di Sant’Agata dei Fornari.

 

Come ti difendi dal pernacchio verso il potere? Anche quello del giudice Piccirillo, uomo di potere…

 

Le mie difese contro l’imbecillità  sono state lo studio dei casi e la cura dello stile: chiarezza senza divagazioni; aggettivi, giusto quelli che i fatti e nei provvedimenti sono in grado giustificare nessuna incursione nel moralismo  (come quelle proposizioni del tipo  “sebbene riprovevole ed eticamente  censurabile, il fatto non costituisce reato”): e questo non perché non abbia una  personale sensibilità etica o politica  semplicemente perché non sono pagato  per esprimerla nei miei provvedimenti ti. E poi non credo negli «uomini della provvidenza».

 

Ah, sembra facile! Siamo mammiferi e in quanto tali gregari, ci fidiamo di quelli che ci dicono «ci penso io»: ci semplificano la vita.

 

Sì, ma spesso sono delle sòle; qualche volta profittano dell’aura di  indiscutibifità che i media costruiscono intorno a loro per curare interessi personali. In ogni caso, anche quando sono realmente capaci e onesti, servono alle classi dirigenti per dimostrare di aver fatto, nominandoli, il massimo possibile contro un fenomeno criminale e alle collettività per de-responsabilizzarsi. Trovo che il potere bisogna farselo perdonare, trasformandolo da arrogante sostantivo in verbo servile (al servizio della comunità, ovviamente).

 

Senti, allora in questo contesto, in questa lotta contro il potere, mi racconti un tuo tormento interiore? Se ne hai avuti…

 

Mah, tutta la mia vita di giudice è stata un tormento: il tormento della decisione, il timore di mandare degli agenti a prelevare alle cinque del mattino, davanti ai suoi figli, un innocente; di essere corresponsabile dello sputtanamento mediatico di un brav’uomo o magari di un fetente che però, quella cosa lì, la cosa per la quale lo stavo arrestando, non l’aveva commessa.

 

Funziona anche al contrario? Il tormento, dico?

 

Di lasciar libero un colpevole? Certo, hai voglia di dire in dubbio pro reo, quando rischi di esporre una vittima, magari un bambino o una donna maltrattata, alla ripetizione o all’incrudelimento dei suoi traumi! E poi l’incazzatura per le indagini fatte male, fatte senza la curiosità di capire, gli interrogatori «in ginocchio» dei pentiti, come le interviste televisive di certi giornalisti agli uomini di potere, insomma la ricerca del riscontro vissuta come un esercizio aritmetico.

 

Aspe’, spiega quest’ultima, l’interrogatorio in ginocchio dei pentiti…

 

Ricordo un pubblico ministero che aveva un taccuino sul quale aveva annotato un elenco di nomi, accanto ai quali metteva una crocetta ogni volta che un pentito menzionava quel nome. Gli chiesi che cosa significassero quei segni. Lui mi spiegò che l’elenco corrispondeva a una serie di persone chiamate in causa da un collaboratore di giustizia. Non appena un altro pentito menzionava quel nome, lui riteneva raggiunto il riscontro e aggiungeva una «x». Così, a prescindere da quanto fossero specifiche le accuse e senza neppure verificare se per caso il secondo pentito avesse sentito quel nome dal primo. A quel punto scattava la richiesta di misura cautelare.

 

Ok, se i fatti non confermano la peggio per i fatti.

 

Sì, un po’ come usare le massime sociologiche, non per interpretare gli elementi di prova raccolti, non per saggiarne la plausibilità  e la coerenza con i  contesti, ma per riempire vuoti di conoscenza.   Gli aggettivi spesi per riempire il vuoto dei fatti.

 

Aneddoti?

 

C’era un pubblico ministero che, nelle sue richieste cautelari definiva “odioso” qualsiasi crimini, “callido” qualunque espediente, dal pacco in autostrada a una sofisticata bancarotta. E così credeva, con un aggettivo sempre lo stesso, di aver dimostrato la sussistenza delle esigenze delle esigenze cautelari che, nel nostro sistema, sono essenziali per tenere dentro uno non ancora condannato con sentenza irrevocabile.

E poi?

 

Poi c’è il «copia e incolla», la possibilità di scrivere senza fare la fatica di pensare in proprio, e neppure quella di leggere quello che si scrive e si firma. Una cosa terribile. Fiumi di parole scritte da un maresciallo dei carabinieri incorporate nella richiesta di un pubblico ministero e da questa nel provvedimento di un giudice che ti toglie la libertà, fino a quando un giudice coscienzioso, uno  che vuol dare un senso al suo mestiere, non decide di fermare quel flusso e “andare a vedere”.

Se quel giudice sei tu, il compito può costarti una fatica enorme (raramente i materiali digitalizzati sono sintetici), può darti l’affanno, mentre vedi il collega della porta accanto che ha risolto il problema cambiando il font della richiesta ricevuta dal pubblico ministero e aggiungendo qualche frasetta di stile, così per far vedere di aver esercitato “un’autonoma valutazione”, come dice la legge. È per questo che, quando sento parlare dell’informatica   come la soluzione a tutti i problemi della giustizia, mi si scatenano istinti luddisti.

 Cioè?

Cioè, Se dovessi riscrivere Il processo di Kafka, Josef K. lo racconterei così, come il nome di uno che si trova inserito in un’informativa di polizia che, per via informatica, diventa una misura cautelare e che viaggia così, di computer in computer, senza incontrare nessuno disposto a sobbarcarsi la fatica di leggere e capire; così, fino a condanna definitiva.

 

Ok, senti, per chiudere mi racconti, invece, qualche vittoria?

 

Diciamo che mi sono fatto voler bene da quelli che stimo: amici, colleghi, collaboratori, poi le conferme delle decisioni (condanne e assoluzioni, arresti cautelari e rigetti delle richieste di arresto), anche di quelle più politicamente sensibili, in un contesto nel quale la tenuta dei provvedimenti conta pochino; in un ambiente politico-mediatico nel quale un fallimento processuale può essere ricompensato «alla grande» se trovi il giornale interessato ad accreditarti come l’incompreso di turno o come la vittima dei «poteri forti».

 

Sei stato anche un ministeriale, vero?

 

Sì e diciamo così un ministeriale che non ha rinunciato a scrivere di proprio pugno circolari e direttive: una cosa rara nei luoghi del potere, dove è tutta una corsa ad appropriarsi del lavoro degli altri, tacendone magari i meriti per non ritrovarteli poi come concorrenti o, semplicemente, per evitare che qualcuno ti soffi i migliori collaboratori.

 

Lo sai vero che nei ministeri è difficile togliere delle abitudini: Si avviso che su «Gazzetta Ufficiale» è pubblicato… Decreto eccetera…

 

Una vittoria per tutti sarebbe quella di organizzare utilmente e creativamente il lavoro di decine di donne e uomini: alcuni già di per sé preziosi; altri corrispondenti al cliché dello statale da commedia all’italiana, quello che, quando lo inviti a cambiare un modulo uguale da vent’anni, a dismettere una prassi idiota, ti guarda con l’aria di chi vorrebbe dirti: “Parla, parla, tanto tu tra un paio d’anni te ne vai; io resto qua!”.

Fonte: Intervista di ANTONIO PASCALE da MIND  MENTE E CERVELLO –  Settembre 2019