La vendetta della politica si è abbattuta sui magistrati

Lo scandalo Csm ha le sue radici nello scontro del 1993. Ed è la nemesi di Mani Pulite. Negli anni ruggenti della seconda Repubblica, il potere giudiziario scese in guerra – compatto come una falange – contro un nemico esterno: la politica. Adesso è in guerra con se stesso. Una guerra per bande, pardon, correnti.

Il caso Palamara ne ha illuminato qualche scena, ma il teatro è vasto, gli attori innumerevoli. Come è potuta divampare questa lotta intestina? E quando, dove, perché? La risposta si trova nel passato. E il passato ci consegna un dramma in quattro atti, come Il giardino dei ciliegi di Cechov.

Atto primo: Tangentopoli. Ossia il trionfo del – potere giudiziario – che decapitò un’intera classe di governo. Tanto che nel 1994 il 90 per cento dei deputati non aveva più di una legislatura d’anzianità. Da qui l’abuso della leva penale, dei processi, delle pene. Da qui il sovraffollamento delle carceri, che nel 2006 fu tamponato dall’indulto, salvo ripetersi con cifre ancora più imponenti (attualmente i penitenziari italiani ospitano 13.600 detenuti in più dei posti letto). Da qui riforme costituzionali timbrate all’insegna del giustizialismo, del primato dell’inchiesta giudiziaria sulle garanzie della difesa. È il caso, nel 1992, dell’amnistia, resa più impervia novellando l’articolo 79 della Carta; e l’anno dopo dell’autorizzazione a procedere per i parlamentari (inasprendo l’articolo 68).

Atto secondo: la reazione. Giacché la politica cercò immediatamente una rivincita, scornandosi con il popolo dei fax. Accadde con il decreto Conso (5 marzo 1993) sulla depenalizzazione del finanziamento illecito; accadde di nuovo con il decreto Biondi (13 luglio 1994) sulla riduzione della custodia cautelare. Un doppio insuccesso, che si è poi ripetuto molte volte.

Con le proposte d’istituire una commissione parlamentare d’inchiesta su Mani pulite (nel 1993, nel 1998, nel 2000). O con il ben più ambizioso tentativo di regolare i conti per via costituzionale: la Bicamerale di D’Alema nel 1997, la Devolution di Bossi nel 2005. Ma nel frattempo lo scontro degenerava in rissa, e la rissa in conflitti tra poteri davanti alla Consulta. Nel 1961, quando lo Stato italiano festeggiò il suo primo secolo di vita, questi ultimi formavano una cifra tonda come un uovo: zero. Dieci anni dopo furono in tutto 2, vent’anni dopo 3. Invece nel 2000 la Corte costituzionale ne ha ricevuti 42.

Atto terzo: la tregua. “Se non puoi sconfiggere il tuo nemico, fattelo amico”, diceva Giulio Cesare. Sicché la politica s’arrende, riconosce il ruolo preminente del corpo giudiziario, e ne offre prova disseminando l’ordinamento di reati: ne abbiamo in circolo 35 mila, secondo una stima accreditata. Per lo più delitti di cui ignoriamo l’esistenza, che ciascuno può commettere senza nemmeno sospettarlo. Ma che giocoforza accrescono il potere dei giudici, come succede altresì quando un decreto sicurezza inasprisce le pene per decine di reati, o quando un decreto spazza-corrotti permette l’uso dei trojan per le indagini sulla corruzione. Ecco, il trojan che ha dannato Palamara e i suoi compagni d’avventura.

Atto quarto: la faida. Quella scoperchiata dall’inchiesta di Perugia, che ha messo in crisi il Csm. Lo spettacolo di capicorrente che trafficano con gli imputati sulle nomine degli uffici giudiziari, forse il punto più basso nella storia della magistratura italiana. Ma dopotutto stiamo assistendo alla vendetta postuma della politica sul suo antico avversario. Perché il potere è un frutto avvelenato, che inebria le menti e le coscienze. Offrendo ai giudici maggiori quote di potere, la politica li ha resi anche più fragili, più esposti agli appetiti dei gruppi organizzati.

E il Consiglio superiore della magistratura è diventato la casa dei potentati giudiziari. Dunque è da lì che bisogna cominciare. Il rimedio? Selezionare (attraverso standard oggettivi) una platea di magistrati meritevoli, all’interno dei 9 mila giudici italiani; e poi sorteggiarne 16 da inviare al Csm. Rimedio estremo per un male estremo.

Fonte: di Michele Ainis/ L’Espresso, 23 giugno 2019