La giusta severità non è mai disumanità. A proposito del “no” Cedu all’ergastolo ostativo

 Giudicando sul ricorso di un ergastolano, a suo tempo condannato per crimini aggravati dall’appartenenza a un clan mafioso, un collegio giudicante (tecnicamente, una “Camera”) della Corte europea dei diritti dell’uomo ha dunque detto “no” all’ergastolo “ostativo”. Una premessa.

In Italia, diversamente da un tempo, le condanne all’ergastolo non comportano di per sé una reclusione destinata in ogni caso a durare per sempre: infatti, anche gli ergastolani “comuni” non soltanto possono fruire, scontata parte della pena nelle modalità più severe, di “benefici” come il lavoro all’esterno e la semilibertà, ma dopo 26 anni di reclusione possono essere liberati (ovviamente, a condizione di aver tenuto, in carcere, “buona condotta” e pur senza che ne scaturisca un regime di libertà incontrollata).

Non così, per chi, giudizialmente dichiarato esponente di rilievo di un sodalizio malavitoso, non si presti a “collaborare” con polizia e magistratura nelle attività, preventive e investigative, contro il mondo di sua provenienza: ergastolo, questo, appunto “di ostacolo” a che si applichino nei suoi confronti i “benefici” penitenziari e tale da imprimere sul suo destino un “fine pena mai”, traduzione in linguaggio burocratico del “marcire in galera” quale sinistro augurio oggi distribuito a destra e a manca.

Intuitivi, i motivi addotti a giustificazione del regime eccezionale al di là dei pur comprensibili sentimenti di esecrazione per certi crimini: campeggia lo scopo di rafforzare le potenzialità di uno strumento – il pentitismo – mirante a scardinare reti delinquenziali di specifica virulenza.

Altrettanto innegabile, però, il disagio, sino alla vera e propria ribellione morale, tra gli animi più sensibili all’esigenza di non cancellare mai, dalle sanzioni penali, i caratteri dell’umanità e della finalità “rieducativa” (sono parole usate anche dall’art. 27 della nostra Costituzione). Dallo stesso papa Francesco – come da i suoi predecessori – sono state pronunciate forti parole contro pene che spengano nella persona la speranza.

Dei giudici, a Strasburgo, sono ora venuti a far sostanzialmente proprie tali istanze, definendo l’ergastolo “ostativo” made in Italy una pena inumana e lesiva della dignità della persona e perciò contraria all’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Tra i passaggi decisivi della sentenza, quelli che negano al rifiuto della richiesta “collaborazione” il carattere di un comportamento incontrovertibilmente indicativo di volontari e persistenti legami con la criminalità organizzata, in particolare sostenendo che esso può invece trovare spiegazione nel timore, altrimenti, di ritorsioni per sé o per altri.

È probabile che il Governo italiano impugni la decisione davanti alla medesima Corte europea in una formazione totalmente diversa (la “Grande Camera”, composta da diciassette giudici e non da sette come le Camere singole). Può farlo entro tre mesi. E verosimilmente si dovrà aspettare che da Strasburgo venga una parola definitiva, prima che il legislatore – seppur sollecitato al riguardo dalla sentenza – ponga mano a una riforma delle norme attuali e altresì prima che in proposito si esprima la Corte costituzionale (è in calendario per fine di ottobre una sua pronuncia, ma non stupirebbe un rinvio).

Da non trascurare, comunque, un chiarimento esplicitato dalla stessa sentenza: il ricorrente oggi “vittorioso” della causa non deve attendersi, nonostante il tempo già decorso dall’inizio della sua reclusione, una “prospettiva di imminente liberazione”. Se non leggo male, ne viene, più in generale, che quel rifiuto di collaborazione, il quale non può più essere ostacolo insormontabile al regime penitenziario “comune”, può pur sempre far parte degli elementi da considerare, negli accertamenti concreti circa il venir meno di una pericolosità del soggetto e in special modo in quelli vertenti sull’effettività della rescissione di legami con la criminalità organizzata, quali presupposti per una liberazione o per modalità di esecuzione della pena sfruttabili per un ritorno nel mondo del crimine.

Con la sentenza, letta nella sua interezza, la Corte ci dice però anche che rifiuto di disumanità delle pene e rispetto della dignità dei detenuti non possono essere soltanto belle parole. Devono avere risvolti concreti. Occorre ribadirlo con forza, e proprio perché in questi giorni si sono ripetute, e hanno invaso la rete, più o meno volgari maledizioni per la fine del “fine pena mai”, sino alle frequenti invocazioni della pena di morte (tanto meglio se dopo esemplari supplizi), come un sostitutivo, e più truculento, “fine pena ora”.

Fonte : Avvenire, 22 giugno 2019 / di Mario Chiavario