La malattia mentale e la “potenziale pericolosità” di chi ne è affetto

“D’ora in poi” è l’incipit del comunicato che il 19 aprile scorso l’ufficio stampa della Corte Costituzionale ha pubblicato a commento della sentenza n. 99 che si rivolgeva sia direttamente ai giudici che da quel momento avrebbero potuto disporre una misura alternativa alla permanenza in carcere dei cosiddetti rei/folli, sia indirettamente ai non pochi sostenitori del “trattamento giudiziario paritario”.

Persone, che da quel momento avrebbero dovuto provvedere a ridimensionare la loro caparbia volontà di affidare esclusivamente alle già poco attrezzate sezioni sanitarie interne alle carceri: il compito di curare tutti i condannati la cui infermità mentale grave fosse sopravvenuta durante la detenzione. Opportunità studiata e quotidianamente caldeggiata anche per i folli/rei ai quali non fosse stato ancora accertato in via definitiva (quindi, dopo mesi, mesi e mesi di cella) lo stato di infermità al momento della commissione del fatto.

La Consulta ha spiegato in una forma a tutti comprensibile come tale regime penitenziario riesca a trasformare l’espiazione della pena in un trattamento sanzionatorio che viola i principi costituzionali nei confronti di ammalati la cui sofferenza diventa talmente grave che, cumulata con “l’ordinaria afflittività” del carcere da luogo a un supplemento di pena contrario al senso di umanità.

“Ordinaria afflittività”, è un modo per definire il disagio che, così come la condizione di benessere, è parte integrante di ogni esistenza. Lo si può avvertire nel momento in cui sopraggiungono difficoltà e situazioni tristi e amare che se vengono lasciate incancrenire possono determinare perfino atti di autolesionismo, se non comportamenti suicidari.

Il disagio, tuttavia, anche in prigione si differenzia dal grave disturbo mentale e dalla disabilità che ne consegue. Di un disagio (che a ben guardare in psichiatria neppure viene ufficialmente elencato) si possono determinare le cause; di un disturbo mentale no.

Nessun detenuto si è mai addormentato in cella la sera senza particolari problemi di salute mentale, e si è risvegliato al mattino con una diagnosi di schizofrenia, il cui esordio è sempre preceduto da un non breve vissuto di segni e di sintomi premonitori malamente sottovalutati dalla impreparata famiglia e dal suo medico, o dalla scuola o, più tardi, nell’ambiente di lavoro. Nella mia famiglia l’esordio (che attese sette anni prima di diventare tale) avvenne quasi al termine di un ormai più che lontano servizio militare di leva. Durante l’ultima licenza a casa.

A causa dell’ormai onnicomprensivo ricorso al termine “disagio”: la comunità è portata a ridimensionare se non a banalizzare almeno parzialmente la realtà rappresentata dai gravi disturbi mentali e dalla difficile lotta per contrastarli. Nel primo caso, ad esempio, al Garante è stato suggerito di scrivere a deputati e senatori (nel suo rapporto del 2018 sul monitoraggio della salute mentale nelle carceri) che in quei luoghi “la patologia (?) più diffusa è il disagio psichico”.

Un esempio della seconda conseguenza lo ha fornito il ministero da dove: sia “per un cambio di paradigma sull’argomento”, sia “per un corretto approccio al disagio mentale” e sia con “l’intento di promuovere una corretta (!?) informazione”, hanno lanciato una campagna di sensibilizzazione titolata: “da vicino nessuno è normale”.

Convinti di esaltare un pensiero basagliano, mentre si tratta semplicemente di un verso di una più recente canzonetta brasiliana che in portoghese fa: “de perto ninguem è normal” e si riferisce a tutt’altro argomento.

Nessuna malafede, ma può succedere, e lo dimostra la frase scritta al termine del secondo periodo del punto 5 della sentenza n. 99 della Corte, quando accenna alle “esigenze di difesa della collettività che deve essere protetta dalla potenziale pericolosità di chi è affetto da alcuni tipi di patologia psichiatrica”. Con dispiacere, l’ho letta e riletta anche in controluce e per un attimo ho avuto il dubbio che un comma della legge “Gozzini” del 1986 fosse stato sbianchettato.

Quello relativo all’abrogazione dell’articolo 104 c.p. e della sua non più applicabile “presunzione di pericolosità fino ad allora collegata alla situazione di sofferente psichico” (fonte, Ministero della Giustizia). Timore infondato, ma resto dell’avviso che “potenziale” e “presunto” siano del tutto intercambiabili.

Che la collettività debba essere protetta è logico, ma c’è modo e modo di giungere a un adeguato bilanciamento tra le esigenze di sicurezza e la necessità di garantire il diritto alla salute dei cittadini con gravi problemi di salute mentale. Su quest’ultima esigenza c’è ancora parecchio da fare (l’Oms stima di almeno 10 anni la minore speranza di vita a causa della ridotta attenzione rivolta dal sistema sanitario alla salute fisica di chi soffre di una grave malattia mentale), ma sulla sicurezza non ci si può proprio lamentare.

Lo sta a dimostrare la scelta di un ospedale toscano che forse per non infrangere la disposizione regionale che vieta la contenzione meccanica neppure per dieci minuti: ha sollecitato il ricorso al “Thomas A. Swift’s Electronic Rifle” (“rifle” qui sta per pistola).

E così lo scorso maggio, entrando prima in ospedale e poi in reparto, e attenendosi, spero, alle istruzioni per l’uso che consigliano le gambe: le forze dell’ordine, obbedendo e tacendo, ma certamente a disagio, hanno sparato i dardi “paralizzanti” per ben tre volte in due giorni contro il bersaglio mobile additato dal sanitario di turno. Il bersaglio, invece, era sempre lo stesso… sempre più spaventato… sempre più irrequieto. Sempre più solo.

Fonte: di Franco Vatrini/ quotidianosanita.it, 9 giugno 2019