Piazza Fontana, storia infinita di un processo

Nel nuovo saggio Benedetta Tobagi ricostruisce la vicenda giudiziaria lunga trentasei anni che fece seguito alla strage. E alimentò la sfiducia nello Stato

dI SIMONETTA FIORI

 

E’ stato uno dei processi più importanti della storia d’Italia. Un processo monstre per durata (complessivamente trentasei anni!) ed esito paradossale: incompiuto sul piano della giustizia – ancora ignoti i nomi degli esecutori materiali – ma più che compiuto per il Tribunale della storia che certifica la responsabilità di Freda e Ventura, esponenti di Ordine Nuovo spalleggiati dai servizi segreti. Soprattutto la strage di Piazza Fontana – con i suoi diciassette morti e novanta feriti per un ordigno esploso alla Banca dell’Agricoltura il 12 dicembre del 1969 – ha segnato uno spartiacque nella storia italiana, con una scia di segreti, fantasmi, risentimenti e violenze da cui fatichiamo a liberarci, a distanza di mezzo secolo. Alla “madre di tutte le stragi” e alla sua tormentata avventura giudiziaria Benedetta Tobagi ha dedicato quattrocento pagine, frutto di una ricchissima ricerca archivistica e di un metodo di studio che consente di rovesciare lo sguardo su quel labirinto drammatico: non più solo incubo del Paese, ma anche risveglio di energie democratiche (Piazza Fontana. Il processo impossibile, Einaudi). Il libro arriva al termine di un lungo percorso cominciato con la riflessione sul padre Walter Tobagi, ucciso dal terrorismo rosso nel 1980, e proseguito con il saggio sull’attentato di piazza della Loggia a Brescia (che nel frattempo ha cambiato sottotitolo: “storia di una strage”, non più “impunita” dopo le condanne del 2017 ).

Come ne esce lo Stato italiano dalle sue ricerche?

“Male, molto male. La cancrena coinvolse molte più articolazioni di quanto non voglia una vulgata rassicurante che si limita ai servizi segreti deviati. In scena vediamo muoversi ufficiali, funzionari e rappresentanti dello Stato mossi non solo da un tenace anticomunismo e dalla fedeltà al Patto Atlantico, ma invischiati in giochi di potere e in reticoli criminali. Però questa è solo una parte della storia”.

Qual è l’altra parte?

“Lo Stato è un organismo complesso e policentrico, per il quale mi sembra sommaria e superata la formula della “strage di Stato” alla quale si ricorre ancora oggi. All’epoca la celebre controinchiesta che portava quel titolo sosteneva la irriformabilità democratica dello Stato, visto come entità monolitica. In realtà sono Stato anche i magistrati e i poliziotti che con grande coraggio e guizzi di intelligenza hanno consentito l’accertamento della verità. E a me interessava mettere in luce questo aspetto: gli sforzi di tante figure spesso dimenticate”.

Lei dedica molta attenzione al primo processo di Catanzaro, durato quasi vent’anni.

“Sì, il processo fu spedito in Calabria perché venisse definitivamente seppellito. E invece quei giudici riuscirono a fare un lavoro straordinario, portando lo Stato alla sbarra”.

Dall’analisi dei vari processi emergono elementi di verità definitivi che nessuna assoluzione può cancellare.

“E questo diventa anche un antidoto allo scetticismo di chi crede che la verità sia irraggiungibile. Ad esempio, in Italia esiste una vivacissima subcultura di destra che, oltre a idealizzare il fascismo, nega il coinvolgimento – largamente provato – dell’estrema destra nelle stragi. E addirittura sin dagli anni Settanta si nasconde dietro lo slogan della “strage di Stato”, quindi i neri non c’entrano!”.

C’entrano eccome. La sua ricostruzione conferma il patto segreto già emerso da altre ricerche storiografiche.

“Esisteva un accordo tra l’allora presidente della Repubblica Giuseppe Saragat e il premier Mariano Rumor – un patto benedetto dagli Stati Uniti – per far salire la temperatura politica al fine di favorire uno spostamento a destra dell’asse politico. Una versione minimale della strategia della tensione. Ma questo patto segreto fu scavalcato dalla destra eversiva che preferì fare una fuga in avanti, protetta dai servizi nazionali e internazionali. Aldo Moro contribuì a fermare lo spostamento a destra, promettendo in cambio il silenzio, ossia l’insabbiamento della pista nera. Quella che però oggi appare come una brutale ragion di Stato va collocata nel contesto di una Repubblica giovanissima, gravata dall’eredità del fascismo e dal vincolo della guerra fredda”.

Quali documenti l’hanno più colpita?

“Quelli mai studiati prima, finiti nei tanti rivoli laterali del primo processo. Riguardano i politici. Colpisce la spregiudicatezza di Giulio Andreotti, che si spacciò eroe della trasparenza mentre fu il suo governo a opporre il segreto di Stato sul rapporto tra servizi e destra eversiva”.

La strage di piazza Fontana è sempre stata letta come “la perdita dell’innocenza”, una perdita di fiducia nello Stato e nelle sue istituzioni: formula abusata anche da chi ha giustificato il terrorismo rosso successivo.

“Detto da chi ha compiuto violenze, è solo una manipolazione. Credo che la strage abbia reso il terrorismo di sinistra più lungo e più violento, procurandogli maggiori aree di consenso”.

Al di là dei patti occulti e dei depistaggi, lei mette in luce un sistema giudiziario ancora improntato alla mentalità repressiva del fascismo.

“Sì, allora era ancora molto forte un’idea di giustizia come strumento di mantenimento dell’ordine e del potere. Furono i giovani magistrati, poliziotti e avvocati a immettere nel sistema una cultura costituzionale che poi avrebbe prodotto mutamenti profondi. Anche per questo credo che il processo vada interpretato non solo come un incubo della Repubblica ma anche come un risveglio. Come il passaggio della linea d’ombra di Conrad, un drammatico e durissimo passaggio all’età adulta: non solo per il sistema giudiziario e per la cultura legale, ma per tutto il Paese”.

Fonte: La Repubblica  – Cultura Politica Storia – venerdì 7 giugno 2019