Lotta di potere (in toga)

Le inchieste su alcuni membri del Csm sono rilevanti

soprattutto per l’atmosfera ambientale che illustrano

di Ernesto Galli della Loggia

 

 

Le inchieste in corso su alcuni membri del Consiglio Superiore della Magistratura non sono rilevanti per le fattispecie penali a cui esse finiranno (o non finiranno) per mettere capo. Al pari delle inchieste su Mani Pulite di venticinque anni fa esse sono rilevanti per qualcosa di ben più importante: per l’atmosfera ambientale che illustrano. Per la luce che gettano vuoi sulle condizioni con cui da tempo funzionano parti cruciali della nostra vita pubblica, vuoi sulla qualità antropologica e sulla tenuta etica di coloro che ne sono protagonisti. Che in questo caso sono dei protagonisti particolari: i magistrati, e cioè in pratica i padroni della vita e dei beni di ciascuno di noi. Diciamo le cose senza giri di parole, come del resto ha già fatto più che a proposito il presidente Mattarella. Proprio nella misura in cui non si tratta di un’associazione di allibratori di corse ippiche o di grossisti dei mercati ortofrutticoli, bensì dell’Associazione nazionale dei magistrati e del Consiglio Superiore della Magistratura, l’immagine che esce dalle inchieste è devastante. E tanto più obbliga a considerazioni generali in quanto la fanghiglia che oggi emerge a proposito del Csm si aggiunge a quella che solo poco tempo fa è emersa riguardo a un’altra importante magistratura come il Consiglio di Stato. Una fanghiglia fatta di comportamenti illegali che si ha diritto di presumere forse non tanto circoscritti. A base di regali, di «omaggi» vari, di vacanze, e di quant’altro rappresenti un agognato miraggio di status per borghesucci ineducati a caccia di privilegi. Ma se questa è l’eccezione – e vogliamo credere che lo sia – essa non nasce dal nulla. Nasce dalla prassi abituale che da molti anni a questa parte caratterizza un Csm ridotto a «mercato delle vacche» (copyright Marco Travaglio) tra le varie correnti politiche in cui è divisa la magistratura.

Assatanati rappresentanti di tali correnti usi a combattere senza esclusione di colpi e di compromessi per far nominare i propri candidati agli uffici più importanti, l’abitudine non infrequente dei dossier come strumento di pressione e di ricatto, regole calpestate pur di ottenere la meglio, contatti abituali dei vari magistrati con rappresentanti di questo o quel partito politico per tessere le opportune strategie all’interno del Consiglio stesso, e via di questo passo. Il Csm è da sempre (diciamo da qualche decennio) l’insieme di tutte queste più o meno commendevoli attività. Le quali hanno un nome: politica. Di infima qualità, politica degenerata, ma politica. E come sempre quando si tratta della politica l’obiettivo è stato ed è sempre uno: il potere e ciò che esso di volta in volta significa.

Ormai da molto tempo i membri laici e togati del Consiglio Superiore della Magistratura costituiscono in realtà un gruppo di persone impegnate quotidianamente in una più o meno aspra competizione per ottenere la guida di uno dei tre poteri fondamentali di ogni collettività politica: il potere giudiziario. Da questo punto di vista è difficile sottrarsi all’impressione che sia stata perlomeno un’ingenuità da parte dei costituenti immaginare di affidare tale potere e l’inevitabile lotta politica per il suo esercizio esclusivamente a un ristrettissimo gruppo di persone perlopiù prive di legame con la sovranità popolare (in un democrazia l’unica fonte di legittimazione di qualunque potere pubblico), dunque irresponsabili, e oltre tutto ovvie beneficiarie del potere da esse esercitato ai fini delle proprie carriere personali. Ingenuità dei costituenti aggravata, poi, da una legge per l’elezione dei magistrati membri del Consiglio (quella attuale stabilisce un sistema maggioritario puro con collegio unico nazionale) la quale non ha visto eleggere mai, dicesi mai, un candidato che non appartenesse a una corrente organizzata. Aggravando in tal modo la degenerazione politicista del Csm, la subordinazione di tutto all’appartenenza ideologica, l’elevazione di tale appartenenza a criterio supremo della qualità delle persone: cioè il morbo che ha avviato quell’organo alla vergogna e alla rovina attuali.

La prima riga di quella parte della nostra Costituzione che è dedicata alla magistratura recita testualmente: «La giustizia è amministrata in nome del popolo»: per poi aggiungere «i giudici sono soggetti soltanto alla legge». Ora, è davvero difficile dire che cosa oggi possa mai concretamente significare questa solenne evocazione del «popolo» nella realtà di un’amministrazione della giustizia che non solo è circondata dal massimo sospetto e da innumerevoli critiche da parte dell’opinione pubblica, ma che non a caso vede il democratico istituto della giuria popolare (pure previsto dall’articolo 102) strettamente limitato ai soli processi in Corte d’Assiste (cioè solo per i reati gravissimi), e per giunta inficiato dalla presenza accanto ai giurati popolari di due magistrati messi lì apposta per «guidarli» e condizionarli.

Quanto ai giudici «soggetti soltanto alla legge», non mi pare sbagliato chiedersi se possono essere considerati davvero tali dei magistrati i quali se ambiscono a incarichi importanti, se desiderano ottenere un giusto riconoscimento per le loro capacità, devono per forza ingraziarsi il capetto di una corrente del Csm, mostrare di condividerne le idee (naturalmente pugnacemente orientate a difesa dell’indipendenza della magistratura…) e magari, per soprammercato, andare pure a cena insieme a lui con un sottosegretario del Pd o un deputato della Lega.

Fonte: Il Corriere della Sera