“Quarto Grado” paga i periti fonici per far sostenere la falsa tesi sulla telefonata al 118. Riprende lunedì 20 maggio  in Corte di Assise il processo a carico di Emilio Lavoretano, accusato a piede libero di essere l’assassino della moglie Katia Tondi.

 

 

 

 

 Anche nell’ultima trasmissione di venerdì scorso, a “Quarto Grado”, il giovane  stato condannato a morte. Uno sciacallaggio mediatico degno della gogna di Enzo Tortora che vuole mettere sulla croce un povero cristo che nell’atto in cui scopre la moglie morta per terra nella propria abitazione piange e chiede soccorsi, mentre i veri assassini sono liberi.

Un’ accusa imbastita sul nulla, partendo dell’equivoca frase (smentita dagli atti ufficiali) inserita nella telefonata al 113 e 118 soltanto per fare audience. Per fortuna la serietà e la equanimità del collegio giudicante sono un baluardo a difesa dell’equivoco e rappresentano una garanzia per l’accusato.

Certo, il fascino della cronaca e l’influenza del “Quarto Potere” (qui veramente dovremmo dire “Quinto Potere”, perché così è definita la tv in america) esiste ed a volte condiziona ma non è certamente il caso di questo delitto e di questo processo.

La trasmissione televisiva “Quarto Grado”, in onda su Retequattro, che – sulla base di un servizio  curato dalla giornalista Ilaria Mura aveva fatto entrare nel processo una registrazione audio al 118 di Emilio Lavoretano (sotto accusa per il delitto della moglie Katia Tondi, trovata strangolata nel luglio del 2013 a San Tammaro), in cui l’uomo avrebbe pronunciato la frase ‘sono stato io’ – insiste sulla propria tesi e sconfessa l’esito peritale depositato in Corte di Assise a Santa Maria Capua Vetere.

Secondo il perito Lavoretano non  pronunciò quelle parole, bensì ‘sta tutta nera’, ad indicare il volto annerito della povera Katia dovuto alla causa della morte per soffocamento provocato da una mano ad oggi ancora ignota.

Ma l’esperto Luciano Romito, che non riveste alcun ruolo nel processo, interpellato da “Quarto Grado” e nonostante non abbia seguito le operazioni tecniche, contesta il perito Ing. Porto su alcuni punti, come la mancata misurazione delle lettere che invece il perito ha eseguito e ne ha dato atto nella perizia depositata all’esito della sua escussione.

Ma c’è di più: il consulente della parte civile, Ezio Denti, pur essendo stato nominato dal legale della famiglia Tondi, non ha però partecipato all’operazione peritale. Neanche l’accusa rappresentata dal pm Domenico Musto, peraltro, ha nominato un proprio consulente al momento della nomina del perito ma si è invece limitato a chiedere alla Corte di Assise di acquisire la ‘prova’ di Quarto Grado.

Lavoretano, difeso dall’avvocatessa Natalina Mastellone comparirà in aula lunedì 20 maggio per una nuova udienza nel corso della quale sarà sentita una psicologa ed un uomo residente nei pressi dell’abitazione di Katia che proprio quel giorno del delitto subì un furto, probabilmente ad opera di una BMW nera di cui aveva parlato anche un altro testimone sentito a dibattimento.

Ma chi dissente dall’accusa mediatica-forcaiola non si trova soltanto tra  i telespettatori o nel complesso partito degli innocentisti o dei colpevolisti (quando muore una donna uccisa è sempre il marito l’assassino) ma addirittura si annida nella fiction spettacolo condotto da Gianluigi Nuzzo.

 

Alessandro Meluzzi, per esempio, analizzando quanto scientificamente avrebbe rilevato il prof. Luciano Romito (assoldato la redazione di “Quarto Grado” e pagato per sostenere la loro tesi, contrariamente a quanto accertato dal perito di ufficio, Ing. Roberto Porto, che ha stabilito che quella frase non esiste) è perplesso sulla interpretazione “usum delphini” della famigerata telefonata fatta da Emilio Lavoretano al 118 allorquando scoprì la moglie  morta a terra.

Secondo il criminologo l’unica cosa certa è che disse “è nera, nera”… bisogna fermarsi con prudenza – ha spiegato Meluzzi – è inverosimile che una persona, che ha appena fatto un omicidio, è altissimamente improbabile che si lasci scappare una parola, ma, che, comunque, non è da considerarsi una confessione completa. Un lapsus può scappare, ma dire “sono stato io” nel momento in cui sta chiedendo soccorso è improbabile”.

E’ molto più attendibile e costituisce prova raccolta in dibattimento la definizione del perito della Corte di Assise Ing.  Roberto Porto il quale ha chiarito che non c’è nessun dubbio il Lavoretano nella sua telefonata “non dice sono stato io”…. Anzi quella frase non esiste.   

Anche Carmelo Abbate, giornalista del parterre di “Quarto Grado”, dove  si sta svolgendo il processo mediatico parallelo a quello che è in atto presso la locale Corte di Assise (Presidente, Giovanna Napoletano; giudice a latere Alessandro De Santis; pubblico ministero Domenico Musto), è del parere che il Lavoretano –  sia innocente.

“Sono dalla parte del Lavoretano  –  ha detto il noto giornalista – ma  che si tratti non già della confessione di un assassino ma del grido  di un uomo disperato che invoca aiuto. Non c’entra nulla con quello che è successo alla moglie. E’ un processo imbastito sul nulla e questa è l’esatta misura  del nulla”.

Dal canto suo il generale Luciano Garofano (ex comandante del Ris di Parma) consulente della famiglia della vittima è convinto che una lettura completa non è chiara ma che si fida molto di più della soluzione scientifica che di una interpretazione soggettiva.

Secondo me se è vero come è vero che il libero convincimento del magistrato deve basarsi sulle prove formatesi in dibattimento questa prova atipica di “Quarto Grado” non né attendibile né utilizzabile.

Resta, insomma, non solo il dubbio sulla frase posta a base della colpevolezza del Lavoretano da parte della Redazione di “Quarto Grado”, ma anche e principalmente quella dell’ora del delitto.

E non solo. La casa messa a soqquadro: indumenti sparsi in ogni dove, tiretti aperti e rovistati, astucci vuoti, mancanza di oro. Tutti indizi che portano ad una ladra (magari, rom, zingara). E poi in ultimo, lui era andato a fare la spesa a comprare la tachipirina…per strangolarla? Con un laccio?