I Tribunali straordinari scrissero indimenticabili pagine di malagiustizia.

 

 

Quello di Terra di Lavoro si rese responsabile del più straziante caso della storia giudiziaria del regno. Ad un vecchio farmacista settantaseienne, noto filoborbonico, in corrispondenza con gli ambienti della Corte, fuggita a Palermo, indagato per il grave attentato al Ministro di Polizia Cristoforo Saliceti, il giudice che conduceva le indagini, membro del Tribunale, promise la grazia se avesse fatto i nomi di coloro che avevano messo la bomba sotto il palazzo dove abitava il Ministro. Il vecchio farmacista, Onofrio Viscardi, accettò il patto e dichiarò che autori dell’attentato erano stati i suoi figli con altri venuti da Palermo. Il Tribunale condannò, tra gli altri, i due figli di Viscardi. Uno a 22 anni di ferri e l’altro a morte per impiccagione. Sentenza eseguita il giorno dopo in Piazza Mercato. I napoletani tremarono per l’orrore. Non per l’impiccagione, da anni spettacolo quotidiano ad opera di rivoluzionari e controrivoluzionari, ma per l’accusa del padre contro i figli, una rivoluzione anche quella, ma contro natura. Nella Gran Corte della Vicaria, che ancora funzionava, nella porta accanto all’aula dove sedeva il Tribunale straordinario, una sentenza come quella sarebbe stata impensabile. Per sua giurisprudenza, i giudici, seguendo le leggi romane, non avrebbero utilizzato la testimonianza del padre contro i figli né quella dei figli contro il padre.

“Perciocché o le voci della natura sono ascoltate da sé stretti congiunti, e il favore corrompe la testimonianza; o tacciano nel di loro seno, e conviene allora dire una ferina scellaragine abbia il loro cuore depravato”.

 

Lo aveva scritto Mario Pagano, l’impiccato di qualche anno prima. I napoletani tremarono ancora di più quando si accertò che quei due fratelli, uno impiccato e l’altro ai lavori forzati, erano innocenti. Il giudice commissario che aveva stretto il patto con il vecchio padre accusatore, non potendo negare la tragedia si limitò a dire che il processo era stato regolare. Il giudice era Pietro Colletta, l’autore della Storia del Reame di Napoli. Né questo fu l’unico episodio di malagiustizia del Tribunale straordinario. Michele Pezza, più noto come Fra Diavolo, temuto guerrigliero, protagonista di colpi di mano e imboscate contro le truppe Francesi, inquadrato col grado di colonnello nell’esercito borbonico, in violazione di tutti gli usi e le leggi di guerra, invocate dallo stesso colonnello francese, padre di Victor Hugo, che lo aveva catturato, fu condannato a morte come brigante e impiccato in Piazza Mercato. La vicenda di Giambattista Rodio superò i limiti della ingiustizia, per diventare assassinio. Avvocato, era stato uno dei capi dell’armata della Santa Fede del Cardinale Ruffo nel ’99. Per i suoi servizi era stato nominato brigadiere e fatto marchese. Accusato di aver sobillato la popolazione a rivoltarsi contro i Francesi, era stato deferito alla commissione militare che il 25 aprile 1806 lo aveva assolto. Per capovolgere la sentenza il giorno dopo fu convocata un’altra commissione, che seduta stante, lo condannò a morte e lo fece fucilare alla schiena “così quel misero in dieci ore fu giudicato due volte, assolto e condannato, libero e spento; ed aveva moglie figliuoli, servizi e fama. La inumanità spiacque a tutti, fu grande ed universale il terrore”.